Centro Pannunzio - via Maria Vittoria, 35 H - 10123 Torino (TO) - Tel. (39) 011 8123023
info@centropannunzio.it

Hanno scritto

Pier Franco Quaglieni
autoritratto di Mario Pannunzio
(archivio storico)

Ricordare Mario Pannunzio significa ricordare “Il Mondo” che in lui si identificava.

Il capolavoro di Mario Pannunzio fu infatti il settimanale “Il Mondo”, fondato nel 1949 e da lui diretto fino all’ultimo numero (8 marzo 1966). Con “Il Mondo” il giornalismo settimanale avanzato e moderno cessava di identificarsi con Longanesi e prendeva il nome di Pannunzio. Per altri versi si trattò di un’iniziativa paragonabile, nella storia della cultura, alla “Voce” di Prezzolini, a “L’Unità” di Salvemini e alle riviste gobettiane ed è stato sicuramente il giornale culturale più significativo del nostro dopoguerra. Tutti i nomi più importanti del giornalismo e della cultura di quegli anni e di quelli successivi scrissero su “Il Mondo”.

Vanno almeno ricordati i nomi di Croce, Salvemini ed Einaudi e quelli di Ernesto Rossi, Carlo Antoni e Vittorio De Caprariis che furono le “colonne” del giornale.“Attorno a Mario Pannunzio”, osservò Rosario Romeo, “si riunì un gruppo di intellettuali tra i più impegnati moralmente e politicamente che conosca la storia del nostro Paese”. Ed Alberto Moravia non esitò a scrivere che “in Italia, in quegli anni, c’erano i comunisti e loro, senza alternative”.La sede del giornale era costituita da poche stanze, a Roma, in via Campo Marzio e via dei Prefettti. Il clima politico era quello venutosi a formare dopo le elezioni del 1948. Fra una democrazia cristiana parzialmente arroccata su posizioni conservatrici ed integraliste ed un fronte popolare aggressivo ed estraneo ai valori della democrazia occidentale, povero di idee e mancante di chiare scelte sia strategiche che politiche, le forze di estrazione laica e liberaldemocratica cercavano uno spazio ed un ruolo che permettesse loro di offrire un’alternativa valida, un programma fatto di cose e di rigore morale senza compromessi, in linea con le grandi scelte occidentali.

Pannunzio, dando vita a “Il Mondo”, volle offrire a tali forze un punto di riferimento, una palestra di discussione e di elaborazione teorica, ma anche una specie di “cassa di risonanza” per proposte e problemi. In breve, infatti, “Il Mondo” divenne la coscienza critica dei partiti democratici.Il filo che univa il lavoro degli amici de “Il Mondo” era costituito da Mario Pannunzio, che ne guidò la battaglia dalla fondazione fino all’ultimo numero del giornale. Giulio De Benedetti, che gli fu amico, così lo descrisse: “Mario Pannunzio era un signore garbato, gentile, talvolta quasi frivolo, ma questa sorridente apparenza nascondeva il freddo coraggio del moralista laico”. A 39 anni era già austero; di raffinata cultura, era uomo di gusti semplici.

Persone più anziane e rinomate di lui gli chiedevano un parere, giovani aspiranti al giornalismo gli si affidavano per imparare il “mestiere”. Pannunzio scriveva pochissimo, ma era l’ispiratore diretto di molti articoli, il demiurgo di tutto il giornale di cui sceglieva personalmente anche le fotografie. “Il Mondo” esprimeva un gusto ed un’eleganza che hanno fatto scuola. Si dice che Pannunzio fosse pigrissimo, che il suo problema più assillante fosse quello di trovare parcheggio all’automobile, di cui si serviva anche per andare a comprare le sigarette. A questa apparente indolenza corrispondeva una vivacità intellettuale e un rigore nel lavoro che non lasciava spazio all’improvvisazione: “Il Mondo” fu lo specchio della sua capacità creativa e della sua eleganza.

Amante delle piccole comodità d’ogni giorno, egli fu anche praticante e teorico della grande scomodità della dissidenza in un Paese abituato al compromesso. L’intransigenza di Pannunzio direttore era assoluta. Da aristocratico quel era da parte di madre, discendente di una delle più vecchie famiglie lucchesi, disprezzava ogni forma di cedimento e di favori; la sua vita fu quindi punteggiata da continui e dolorosi distacchi e da momenti di profonda solitudine. “Il Mondo”, come ha osservato Indro Montanelli, rappresentò “la più bella battaglia del pensiero liberaldemocratico nell’Italia di questo dopoguerra”.

C’è stata la tendenza in questi ultimi decenni a fare di Pannunzio una sorta di “Santo laico”, senza approfondire adeguatamente cosa egli abbia davvero rappresentato col suo giornale nel dibattito politico-culturale. Credo che si possa dire che egli sia stato un raro esempio di liberale autentico in un’Italia in cui le minoranze erano viste con dileggio come “visi pallidi”, un liberale che non si è mai appiattito uil conformismo degli schieramenti, non ha mai visto le cose da punti di vista precostituiti, si è rivelato costantemente alieno dallo spirito partigiano.

Pannunzio fu un liberale (tollerante ma non accomodante, aperto a tutte le idee ma inflessibile su alcuni principi per lui irrinunciabili) che ebbe il proprio “portolano” ideale nel magistero di uomini come Tocqueville, Croce, Hayek e Mises, gli ultimi due allora quasi totalmente ignorati in Italia. “Il Mondo” di Pannunzio ha rappresentato infatti la coscienza liberale dei problemi del nostro tempo, vedendo nel liberalismo non una ideologia da conservare e da difendere, ma un metodo con cui risolvere i problemi che concretamente si pongono all’azione di governo.

Alle pagine de “Il Mondo” oggi più che mai dovrebbero andare o ritornare coloro che – abbandonati i dogmatismi di un tempo – intendono essere i protagonisti del pensiero liberaldemocratico. Le idee “chiare e distinte” del liberalismo italiano della seconda metà del ‘900 si trovano, purtroppo, quasi solo nell’esperienza de “Il Mondo” che molti citano, senza averlo neppure letto. All’inizio del nuovo secolo bisogna rifare i conti con la nostra cultura ed in questo quadro non sarà più possibile non tenere nella dovuta considerazione le battaglie di un gruppo che ha indicato una strada che, se l’Italia vuole uscire da una crisi culturale, morale, politica, dovrà, presto o tardi, imboccare. “Il Mondo” è stato espressione di una minoranza liberaldemocratica in un Paese sostanzialmente illiberale. Eppure quella minoranza ha lasciato una traccia ed ha contribuito a far maturare la coscienza politica di molti in senso meno illiberale.

Rileggere “Il Mondo” a 35 anni dalla morte del suo fondatore può aiutare a capire la complessità dei temi con cui si trova a confrontarsi chi voglia far crescere il Paese attraverso la cultura e l’impegno civile, la libertà e la democrazia: “Il Mondo” ha indicato un sentiero che forse val la pena ripercorrere con il necessario distacco critico ma anche con la volontà di capire il significato più autentico di una grande lezione di cultura e di politica.

Pier Franco Quaglieni


Il Mondo settimanale
Il Mondo

Sarebbe difficile disconoscere l'enorme influenza che l'"azionismo" come forma mentis e tradizione intellettuale, più che come organizzazione politica, esercitò sulla cultura italiana resistenziale ed antifascista. (…) Tra il 1949 e il '66 il settimanale "Il Mondo", diretto da Mario Pannunzio, fu l'organo di questo settore del mondo culturale e letterario italiano. Più sistematica ed organica fu l'influenza esercitata dal Partito comunista.

Alberto Asor Rosa


Qualche volta Pannunzio si alzava dal suo tavolo, coperto di scartafacci, nel suo studiolo, ed entrava nella grande stanza della redazione agitando un manoscritto di poche pagine, il volto raggiante, con l'aria di aver fatto una scoperta o di essere sulla soglia di una scoperta. Il saggio passava di mano in mano, redattori ed amici se lo leggevano uno dietro le spalle dell'altro, e spesso i giudizi confermavano quello del direttore. Un altro sconosciuto professore di liceo, impiegato statale, reporter o critico di qualche piccolo quotidiano, era riconosciuto scrittore vero, un possibile collaboratore de "Il Mondo".
E questa forza d'attrazione per i giovani e gli esordienti non più giovani, che non volevano il successo, non volevano applausi e denaro, per lo meno non subito, ma solo fare bene il proprio lavoro con probità, chiarezza, onestà, e cultura, fu per anni una delle maggiori benemerenze del settimanale.

Luigi Barzini

Riunione
Una riunione degli amici de "Il Mondo" a casa di Nicolò Carandini

Oggi la cultura del "Mondo" è più di casa in Italia che trent'anni fa. La cultura che sembrava di pietra dura, come il marxismo, è piena di crepe.

Norberto Bobbio


Quando alla sera passavo alla redazione de "Il Mondo" mi affacciavo alla porta della sua camera. "Vieni, vieni!" e, alzatosi dal grande tavolo ingombro, Pannunzio si affrettava a chiudere la porta per bisogno di appartarsi in un colloquio che fra noi era sempre breve e denso, e anche per una intenzione affettuosa, per un gesto scherzoso di liberazione dalle cure del giornale. La nostra concordia era perfetta e la assoluta confidenza trovava in quel giro di chiave compiuto con enfasi arguta la sua accentuazione. Se mi avveniva di portargli un articolo lo facevo con esitazione, anzi con una timidezza che lui solo mi ispirava e che non conoscevo in alcun altro rapporto della mia vita. Leggeva lo scritto rapidamente a mezza voce incespicando qualche volta ma subito annuendo col capo e col sorriso appena accennato per significare che la colpa non era dello scritto e che tutto andava bene. Pareva che intuisse la mia inquietudine e, finita la lettura, tagliava corto con la solita domanda di felice congedo: "Titolo?". Sapeva che la fatica di scrivere quattro cartelle "magre" come le voleva lui non mi lasciava mente per l'invenzione di un titolo. Ripercorreva allora a volo le cartelle e colpiva improvvisamente nel giusto cogliendo una parola o una frase che riassumevano l'intenzione e il senso dello scritto.

Nicolò Carandini


Vignetta
Una vignetta di Mino Maccari su "Il Mondo"

Il "Mondo" è stato sempre per me, fin dal primo mio articolo (su Via della Conciliazione, nel lontano 1950), la sede naturale della polemica contro i "vandali in casa".
È stato il solo giornale, per molti anni, su cui fosse possibile condurre avanti quella campagna.
In realtà il "Mondo" collocava questa campagna in una linea di continuità rispetto a tutta la propria tradizione politica e culturale, rispetto al proprio impegno di denuncia dei fenomeni degenerativi e patologici della società e della classe dirigente.
Un grande giornale la cui eco ha sempre superato di molto i limiti della diffusione editoriale e il cui peso ha difficilmente un riscontro in altri esempi del giornalismo italiano moderno.

Antonio Cederna


La cultura liberal-democratica del "Mondo" di Pannunzio, specialmente se riletta oggi, può mostrare tutte le pochezze, le insufficienze, gli elitismi e le ingenuità che si vogliono; ma aveva un grandissimo punto di forza, che le derivava dall'effettivo legame di continuità che, soprattutto nel crocianesimo e nel salveminismo, la legava all'Italia prefascista: essa si sentiva e si poneva rispetto al "resto del mondo" in una posizione di autonomia, cioè potenzialmente unica ed egemone. Donde - dati i rapporti di forza dell'epoca - il suo frequente, fatale apparire grillo parlante e/o mosca cocchiera.

Ernesto Galli della Loggia


Il laicismo del "Mondo" non era astioso, ma riecheggiava la migliore tradizione risorgimentale, il separatismo della destra storica, senza inquinamenti giacobini. L'anticomunismo del settimanale era profondo, ma non mai acido, non mai ingiusto. Il pregio del foglio era vedere gli avversari, di destra o di sinistra, per quel che fossero, di non costruirsene il manichino di comodo, troppo facile a colpire.

Arturo Carlo Jemolo


Vignetta
Ennio Flaiano, redattore capo de "Il Mondo" e Amerigo Bartoli visti da Maccari

L'anticomunismo di Pannunzio è sempre stato dettato da motivi di libertà, mai da ragioni legate alla difesa di privilegi economici. Egli ha dato un grande contributo morale e civile alla crescita della nuova Italia nata dalla Resistenza.

Davide Lajolo


"Il Mondo" ha combattuto democraticamente una nobile battaglia per la libertà. Quanti perseguono un'Italia quale oggi la vorrebbero gli artefici del Risorgimento non possono non sentire tristezza e rammarico per la scomparsa del periodico.

Falcone Lucifero


"Il Mondo" di Pannunzio ha rappresentato la coscienza liberale dei problemi del nostro tempo, essendo il liberalismo non una ideologia da conservare e da difendere, ma un metodo con cui risolvere i problemi che concretamente si pongono all'azione di governo, avendo come fine una sempre più ricca e articolata libertà degli uomini e dei gruppi.

Nicola Matteucci


Conobbi Mario Pannunzio quando avevo ventitrè anni e lui venti. Diventammo molto amici, passavamo insieme le serate, andavamo insieme al cinema.
Ho sempre continuato a frequentarlo. Nel complesso il gruppo del "Mondo" fu, insieme ai comunisti, l'unico gruppo che avesse una sensibilità culturale, col quale si potesse parlare. In Italia in quegli anni c'erano i comunisti e loro, senza alternative. Con chi andare, se no, coi democristiani?

Alberto Moravia


Vitaliano Brancati,Benedetto Croce e Sandro De Feo
Vitaliano Brancati,Benedetto Croce e Sandro De Feo

Dopo tanto parlare dell'impegno degli intellettuali e dei rapporti tra cultura e politica, non si può non rilevare come non si sia riflettuto abbastanza sul fatto che il "Mondo" ha rappresentato un raro, e per certi versi esemplare, caso di adesione piena di un gruppo di intellettuali alle ragioni vere della lotta politica, attraverso un impegno continuo e responsabile, che non sfuggiva le occasioni di dibattito, ma le sollecitava e le creava continuamente: che è grande merito, in un tempo in cui quell'impegno si è quasi sempre esaurito in una esteriore e discontinua "testimonianza" o nel comodo atto di presenza in calce ai più incredibili manifesti.

Stefano Rodotà


"Il Mondo" apparve in un momento di grave crisi e di sbandamento della vita politica ed intellettuale del nostro Paese; e divenne subito un segno di unione e di richiamo per gran parte della intelligenza libera italiana. Attorno a Mario Pannunzio si riunì in breve un gruppo di intellettuali tra i più impegnati moralmente e politicamente che conosca la storia del nostro Paese.

Rosario Romeo


Vignetta
Una caricatura di Mario Pannunzio

Nella storia gloriosa delle riviste italiane, che riconosce come capostipiti il "Caffè" di Verri e il "Politecnico" di Cattaneo giù giù sino alla "Voce" fiorentina e al secondo "Politecnico" di Vittorini, il "Mondo" occupa l'ultimo posto in ordine di tempo, ma uno dei primi per serietà di adeguamento alle esigenze contemporanee.

Giuseppe Tramarollo


Il giornale di Pannunzio esercitò un'influenza assai più larga delle cifre rappresentate dalla sua tiratura sia perché impersonò un filone autenticamente liberale, e per certi aspetti libertario, della cultura laica italiana, quella autenticamente antifascista e meno provinciale sia perché, pur nel suo elitismo e aristocraticismo innegabili, promosse un'analisi della società italiana assai più realistica e critica di quella offerta dai grandi giornali di partito e dalla stessa pubblicistica della sinistra.

Nicola Tranfaglia


Il "Mondo" di Pannunzio è stato, per la nostra generazione, una sfida settimanale all'andazzo conformista dell'Italia di sempre ed una instancabile, lucida esortazione all'altra Italia, quella di Croce e di Salvemini. Di Pannunzio conservo una lettera che contiene un amaro consuntivo sulla vita del giornale e sulle ragioni per cui volle ad un certo punto sospenderne le pubblicazioni. Dopo la sua morte gli amici ne mitizzarono, a maggior risalto della sua vivacità intellettuale, la quasi leggendaria pigrizia; ma egli fu in realtà, ciò che fu detto di Gobetti da Gramsci: un organizzatore di cultura di eccezionale valore.

Valerio Zanone


EPIGONI ABUSIVI

Fucina di ingegni giornalistici, laboratorio di scrittura, scuola di intransigenza e rigore, il “Mondo” di Mario Pannunzio ha anche generato la folta schiera degli epigoni abusivi, dei frequentatori presunti, dei consiglieri ipotetici, degli allievi cosiddetti. Vivere parassitariamente sulla leggenda di quella ammirevole redazione e di quel grande direttore è stato l’imperativo di legioni di interpreti non autorizzati che hanno vantato legami indistruttibili, confidenzialità inverosimili, consuetudini mai viste. Minoranza culturale nel Paese degli opposti clericalismi, il “milieu” del “Mondo” è diventato maggioritario soltanto post mortem, quando la testata (nella passività insipiente degli editori, puri o impuri) ha chiuso i battenti e il direttore ha preso congedo da questa vita.
La lezione del “Mondo” è stata edulcorata e immersa nel nostalgismo melenso ed ecumenico. Le asperità di quella comunità politica e intellettuale sono state levigate, ridotte e caricaturizzate nella dimensione di qualche arguzia da bar di qualche strada o piazza di moda, dove la sera si andava e si riandava. Nasce il mito del “Mondo”, depauperato di tutto ciò che ha reso scomodo e temerario il percorso di quel giornale nel panorama del conformismo nazionale.
Si rievoca la figura di Ernesto Rossi, ma del grande e integerrimo antifascista si amputa il rigoroso, intransigente, sferzante anticomunismo democratico. Gaetano Salvemini viene impacchettato in una confezione digeribile all’unanimità, mutilando i suoi giudizi corrosivi sui mostri sacri della cultura irregimentata. Si mettono in secondo piano figure cruciali come quella di Vittorio De Caprariis, che fustigò il “pregiudizio positivo” nei confronti del Pci di una cultura che non seppe portare con coerenza e senza indulgenze preventive la sua critica antitotalitaria. Di Ennio Flaiano si è fatto una figura eccentrica di motteggiatore e artefice di fulminanti calembours: la “flaianite” giustamente vituperata da Giovanni Russo. In una storia annacquata e depotenziata, ovviamente, non può nemmeno mancare l’analisi degli errori commessi dal “Mondo” e da Pannunzio: nell’ansia di riscriversi “pannunziani” ad honorem, la luce abbacinante dell’elogio postumo non può tollerare freddezza ed equanimità. Per questo la storia del “Mondo” è tutta di rivisitare, purché liberata dalle testimonianze insincere degli invadenti che ne rivendicano impropriamente l’eredità. Per restituire a una testata e a un direttore la potenza urticante negata e cancellata dai sacerdoti del nuovo conformismo.

Pier Luigi Battista


IL MEGLIO DEL PENSIERO LIBERALE

 

Il Premio Pannunzio, conferitomi per il 2001 dal prestigioso Centro torinese omonimo, ha destato in me il ricordo di tanti nomi di amici e sodali indimenticabili. Molti legati all’esigente filone liberaldemocratico del “Mondo”, altri invece, in linea parallela e spesso intercambiabile, a quello liberalsocialista del “Tempo Presente” di Silone e Nicola Chiaromonte.
Era stata questa la fucina laica ed ideale alla quale, fondando con Indro Montanelli “Il Giornale Nuovo”, attingemmo negli asfittici anni settanta, connotati da un clima di intolleranza clericale e di terrorismo non solo ideologico. Cercammo di ripetere, in condizioni particolarmente difficili e insidiose, la stessa operazione con cui un quarto di secolo prima Mario Pannunzio riuscì a raccogliere intorno a sé il meglio del pensiero liberale e i più bei nomi della cultura italiana. Non potevamo più disporre di Benedetto Croce, Salvemini, Einaudi. Ma ne raccogliemmo con legittimo orgoglio l’eredità nei nomi di Nicola Abbagnano e Guido Piovene, Sergio Ricossa e Vittorio Mathieu, Rosario Romeo e Renzo De Felice, Carlo Laurenzi e Geno Pampaloni. Mentre la subcultura clerico-comunista ci accusava di “fascismo”, noi travasavamo nelle pagine del “Giornale” le firme orfane del “Mondo”, alle quale aggiungevamo il sale della cultura critica e “dissidente” delle due Europe: da Raymond Aron a Jonesco, da Francois Fejto a Furet, da Maximov a Sacharov. La rinascita del vero spirito censorio fascista, truccato di progressismo, stava palesemente dall’altra parte. Le masse facinorose e urlanti che ci assediavano dalle piazze, la stampa conformista che ci calunniava, i terroristi che sparavano a Montanelli, assaltavano le nostre redazioni e sprangavano i nostri lettori ci facevano tornare a mente le amare parole pronunciate da Pannunzio poco prima della morte: “Siamo in pochi e diventiamo sempre di meno”. Forti del suo esempio stoico, avevamo anche noi l’impressione di condurre un’amara battaglia di retroguardia e di pura testimonianza. Ci ingannavamo. Fu nel 1989, al crollo del Muro, che capimmo di aver condotto invece, quasi senza accorgercene, una battaglia d’avanguardia perigliosa perché solitaria ed elitaria: una battaglia cioè tipicamente, lucidamente, liberalissimamente pannunziana. 

Enzo Bettiza